Pour parler
a dialogo con Guido Buganza
di Marcello Abbiati
“… infine devi considerare, amico mio, che la notte non è fatta solo di bianchi e di neri, ma viene continuamente percorsa e striata da innumerevoli colori, nuovi e diversi … “
Nocturnales, Maxime de Roquefeuil
MARCELLO Il tema del Luna Park: vorrei mi parlassi dei precedenti pittorici e figurativi contigui che hanno in qualche modo influenzato questa scelta.
GUIDO In realtà non ho pensato a qualche pittore che precedentemente abbia affrontato il tema. Lo hanno fatto in molti, ma li ho di fatto ignorati. Forse certe situazioni possono ricordare Hopper, ma un Hopper accennato, incompleto. Mi ha colpito invece come molte persone, vedendo questo nuovo ciclo, facessero riferimento al mondo del circo, a me in realtà completamente sconosciuto. Più frequentata in pittura o nell’immaginario figurativo collettivo, l’atmosfera circense penso possa avermi condizionato, seppur inconsciamente, ma questa per ora resta solo un’ipotesi.
Dici di aver volutamente ignorato il lavoro di altri pittori che si sono cimentati sullo stesso tema: me ne puoi spiegare in motivo, o ipotizzare una ragione per questo tuo atteggiamento?
In realtà non c’è una ragione precisa; la fascinazione per questo tema mi è giunta visitando in un pomeriggio estivo un Luna Park vuoto, senza pubblico a causa dell’orario e della calura estrema. Non è quindi stata una scelta dettata dallo studio o dalla conoscenza del lavoro altrui: si è trattato piuttosto di un’occasione fortuita scaturita dall’immediatezza della suggestione non filtrata dal pensiero altrui. Solo successivamente hanno iniziato ad emergere dei paralleli “indiretti” con opere di altri artisti: penso alla “Battaglia di San Romano” di Paolo Uccello per esempio, che ho riconosciuto come eco lontana di alcune mie giostre.
Ancora di più mi interessa sapere se hai colto anche qualche suggestione contemporanea, e non legata all’ambito artistico: vedendo i tuoi dipinti mi sono venuti subito in mente la terza stagione di American Horror Story (Freak Show) e il film Wonder Wheel di Woody Allen (2017), dove il parco dei divertimenti diventa lo scenario desolato ed equivoco che in qualche modo determina lo svolgersi degli eventi narrati.
Probabilmente sì, in questo caso mi ha influenzato maggiormente il cinema, anche se non i film che mi hai citato, che non ho visto. Diciamo che i miei intenti si avvicinano più all’estetica del regista ungherese Bela Tarr, che paradossalmente gira prevalentemente in bianco e nero, o del Fellini di “8 e mezzo”. La loro costruzione delle inquadrature e delle scene deve sempre molto alla pittura; ogni fotogramma è quasi un quadro a sé. Ma confesso di non essere un grande appassionato di cinema.
Federico Fellini era in effetti ad un passo da essere un pittore a tutti gli effetti, ricordo alcuni suoi memorabili tableaux progettuali per alcune scene di Amarcord. Non conosco invece Bela Tarr… prometto che mi informerò, ma solo se tu, per contro, ti dedichi ad AHS!
Appena ho visto i primi quadri dipinti per questa mostra, ho avvertito un certo disagio, dovuto al fatto che ognuno di loro sembra rappresentare uno iato pieno di tensione tra qualcosa che è accaduto e che sta per succedere, come ne La Tempesta di Giorgione. Questa mia percezione ha qualche ragione d’essere?
Mi lusinga il raffronto col Giorgione, alla cui tensione aspiro da sempre, e che considero come il padre della consapevolezza artistica occidentale, il primo pittore veramente moderno, e la tua domanda centra perfettamente la questione. Mi spiego meglio: solitamente non ho alcuna intenzione narrativa, seguo semplicemente l’istinto, una pulsione quasi erotica che mi spinge a dipingere un soggetto, qualsiasi esso sia. Invariabilmente però ne esce una vera e propria “scena del crimine”, non inteso in senso splatter, ovviamente; si tratta più che altro di una tensione legata ad un evento, vero o immaginario che sia, avvenuto o in divenire, del quale il soggetto dipinto è testimone. Si potrebbe sintetizzare che il cuore del mio lavoro stia non nell’accadimento in sé, ma nelle cause o conseguenze dello stesso.
Chiarissimo! Una curiosità: da non-pittore mi è molto difficile visualizzare il concetto di “pulsione quasi erotica”. Si tratta di soddisfare – come nel sesso – un desiderio di possedere l’altro-da-sé, o riguarda una questione differente?
Il dipingere per me è stato sempre collegato alla pulsione erotica, credo sia in realtà un legame piuttosto comune. La storia dell’arte è piena di esempi in tal senso, e la pittura è stata spesso associata alla seduzione e al sesso, basti pensare a una qualsiasi Venere di Tiziano o ai ragazzi in doccia di Hockey. Ma non è il soggetto iconografico il punto determinante: ovviamente resta un ottimo veicolo, ma penso sia più la materia del dipingere, la chimica stessa del medium pittorico a generare questa pulsazione. La pittura a olio è fisiologicamente organica; feconda e “sacra” al contempo: l’olio è il crisma, ed anche liquido seminale. Non a caso, in situazioni estreme, alcuni pittori hanno usato il proprio stesso seme nel dipingere.
I primi tuoi dipinti che ho visto erano molto affascinanti e denunciavano importanti suggestioni compositive e cromatiche mutuate, mi pare, dal Lucian Freud della maturità. Qui cambi invece totalmente registro, come se ti fossi emancipato dalla sua gigantesca ombra. Hai voglia di parlarne?
Lo scrittore Nicola Gardini mi ha felicemente definito un “Orlando” della pittura, alludendo al romanzo di Virginia Woolf, e devo ammettere che la definizione mi calza a pennello, e mi appassiona. Di fatto ho frequentato ogni epoca e stile, vuoi per capriccio o per studio, oppure per necessità lavorativa. Ammetto, rischiando di sembrare immodesto, di saper dipingere qualsiasi cosa in qualsiasi stile. Il che non è necessariamente una fortuna, anzi è il contrario: personalmente lo percepisco come un indizio di facile influenzabilità!
I miei lavori che hai visto per la prima volta appartenevano in effetti al “periodo Freud”… che innegabilmente mi ha condizionato, e in un certo senso salvato. Tornavo alla pittura dopo un lungo periodo di pausa perché il teatro mi aveva assorbito completamente, lasciandomi solo intermittenti e fragili momenti per dedicarmi al dipingere. Poi a Londra, dove mi trovavo per lavoro, vidi un minuscolo dipinto di Freud: “Ragazzo con sigaretta” e fu un’autentica epifania, con conseguente emulazione e con altrettanto conseguente comprensione che i maestri vanno abbandonati… La vera fatica è stato poi riuscire a trovare un’identità indipendente, non necessariamente legata ad una riconoscibilità immediata. Sono felice del cromatismo recuperato (nei primi anni in cui dipingevo infatti la mia tavolozza era molto vivace), e della capacità di fidarmi di un colorismo a volte spericolato, non curandomi più di tanto dell’opinione corrente.
Come sostiene Nietzsche, non v’è peggior allievo di chi non riesce ad abbandonare il proprio maestro.
O come diceva Pier Paolo Pasolini (riferendosi a Roberto Longhi), è giusto che i buoni maestri vadano mangiati in salsa piccante!
Piace molto anche a me la definizione di Gardini, e trovo che “Orlando” (insieme a Mrs. Dalloway, che amo molto) sia uno dei romanzi più frivoli e insieme gravemente esistenziali della Woolf. Se non ricordo male, il protagonista, alle soglie del XVIII secolo, si risveglia improvvisamente mutato in donna. Portando all’estremo la similitudine suggerita da Gardini, cosa significa il cambiamento di genere sessuale per chi è – in pittura – come Orlando?
Mi piace il termine “frivolezza” che usi. Non per nulla amo molto la pittura francese del ‘700, (alla cui souplesse proprio in questa mostra ho aspirato). Boucher, Fragonard, per non parlare di Watteau o dell’immenso Chardin: li trovo sorprendentemente autentici e consapevoli. Il loro mondo “bisquit” è profondamente angosciante e sensualissimo; la “pornografia” che ne traspira è indizio di autentico terrore della morte, che viene affrontato però con il disincanto e una “joie de vivre” che solo un disperato può sostenere. Non per niente erano questi i pittori venerati da Bacon!
Ma, venendo al tema della trasformazione sessuale, ritengo che la pittura non conosca genere, poiché è, per sua natura, oltre questo concetto: talmente sensuale da superare il genere sessuale. Alcuni dipinti di Picasso sono quanto di più femminile si possa immaginare, e stiamo parlando del Minotauro della pittura… come d’altro canto certi dipinti di Élisabeth Vigée Le Brun possono sembrare dei David. Ugualmente, non possiamo sapere se degli “anonimi” dipinti romani o cinesi siano stati eseguiti da maschi o femmine, o almeno non ne abbiamo la certezza assoluta. Sono inoltre convinto che “Orlando” sia una metafora politica, quindi difficilmente assimilabile ad una vera, seppur letteraria, esperienza transgender. Quindi, per quanto allettante, questa domanda rimane senza risposta.
Esiste una sorta di “corrispondenza sotterranea” tra il tuo lavoro di scenografo teatrale e operistico e l’attività di pittore? O si tratta di due percorsi paralleli e non necessariamente convergenti, dove un ruolo pubblico (lo scenografo) semplicemente si alterna ad un ambito privato (il pittore)?
Scenografia e pittura sono al giorno d’oggi due mondi sostanzialmente separati. Un tempo forse, essendo le scene dipinte, si poteva pensare avessero qualcosa in comune, ma ritengo fosse un malinteso. La storia del teatro lo insegna: le volte che un pittore (come per esempio Picasso) ha prestato la sua opera al teatro ha di fatto imposto la sua personale visione al palcoscenico. In gergo si direbbe “che ha rubato la scena” e il motivo è in realtà molto semplice. Il teatro richiede una prestazione funzionale alla messa in scena, la pittura vive di vita propria: ne consegue uno scontro, un cozzare di intenti.
A proposito di contaminazioni tra le arti, so che sei un melomane e che spesso la musica diventa una componente rilevante del tuo processo creativo. Anche per realizzare questa serie site-specific è accaduto?
La musica è fondamentale per me, anche se nell’ultimo periodo ho spesso dipinto nel silenzio. Quando dipingo, spesso ascolto musiche “mantriche”; negli ultimi tempi, per esempio, amo molto i cori greco-ortodossi … può sembrare una posa, ma in realtà aiutano moltissimo la concentrazione.
So che non è una posa perché lo stesso accade a me quando scrivo un testo saggistico o curatoriale. Per esempio le composizioni di Mozart per corno di bassetto o le Partite per violino solo di Bach sono musiche liquide, per certi versi “destrutturate”, che fluidificano il pensiero e il processo creativo.
Continuando a parlare (provocatoriamente) di me: ho sempre pensato che un buon curatore è come un bravo terapeuta, ovvero uno che riesce a tirar fuori il meglio e il peggio dall’artista con cui lavora, magari provocandolo un po’, alle volte …. Che ne pensi?
Questa domanda è bellissima.
Il pittore si aspetta dal curatore che di fatto gli spieghi il proprio lavoro, e l’esito non sempre soddisfa l’ego (smisurato e al contempo fragile) del pittore. A volte lo scoprire dei risvolti inattesi del proprio lavoro inibisce o addirittura annulla i risultati della propria ricerca pittorica, e parlo per esperienza personale. L’aver capito il perché desideravo affrontare alcune tematiche me le ha fatte odiare e infine abbandonare. Quindi ti rispondo di sì, sicuramente l’approccio è psicanalitico, e può arrivare al terapeutico, ma rilancio dicendo che potrebbe e forse dovrebbe essere reciproco. Aggiungo anche che, di fatto, certi curatori hanno letteralmente creato dei pittori, a dimostrazione che l’autenticità artistica non è esclusivo appannaggio di colui che lavora manualmente, ma può risiedere anche in chi guarda e ragiona sull’opera realizzata. Per usare una metafora, direi che è come una partita a scacchi. Tra l’altro, un ottimo soggetto pittorico, che oltretutto vorrei affrontare da tempo …