Ritratto di luogo

A cura di Nicola Gardini

 

Questo ciclo messiniano di Guido Buganza è, nella sua squisitezza, un esercizio di complessità. Da una parte, abbiamo il dialogo con un altro artista, un grande scultore, Francesco Messina; e dunque, diciamo così, abbiamo il piacere della conversazione o, se vogliamo, della “traduzione”, il tendere la mano a chi sta oltre, pur senza nessuna illustrativa letteralità. Dall’altra, vediamo confluire in un’unificante successione le due manifestazioni più tipiche dell’ultimo Buganza: il ritratto umano e l’oggetto abbandonato. Nel caso particolare delle immagini pittoriche di statue queste due manifestazioni coincidono addirittura in un’abbagliante sovrapposizione, proiettando riflessi anche all’indietro, ai volti di un’altra felicissima mostra di pochi anni fa. Buganza è un pittore colto e la sua complessità nasce anche da un dialogo fitto con le tradizioni più varie. In questi ritratti di statue riconosci perfino qualcosa di ancestrale, la maschera funebre e le effigi del Fayyum.

Il rapporto tra vita e rappresentazione della vita qui prende davvero forme esemplari. Siamo (perfino in termini platonici) alla copia della copia della copia: alla diminuzione progressiva e inarrestabile dell’essere nel “simile”, nell’“ombra” dell’essere. Non un volto ma il volto di una statua in pittura, non una sedia ma tante sedie, una serie di sedie… E quanto si può diminuire, sembra chiederci Buganza, senza negare la vita? Anzi: quanto si deve diminuire (ridurre gli elementi, ma anche, platonicamente appunto, scendere nella scala delle altezze ontologiche) perché la vita si riveli nella sua più ineliminabile presenza, non come residuo, ma come dato di partenza, come luce assoluta? Queste domande riguardano il mondo, non solo lo spazio di una tela né tanto meno il soggetto della rappresentazione artistica. Buganza, infatti, non fa differenza tra volto (immagine di volto) e una sedia di plastica.

Le stesse domande, però, riguardano la funzione stessa della pittura o più in generale dell’arte: la sua relazione con il senso. Il senso, mi pare che ci dica il Buganza del ciclo messiniano, non può darsi se non come fantasma, come proiezione, come visitazione. È fuori della cosa. Non è la cosa in sé (allora che importa che sia copia o essenza?), per quanto questa si imponga e provochi risposte con la sua materialità e con la sua apparente riconoscibilità. Il senso è quello che va verso la cosa, che la illumina o la offusca; e che finisce nella rappresentazione della cosa in maniera sottile, come in casa nostra finisce quello che accade in strada attraverso una finestra. Il senso è un mistero, e come tale non è risolvibile e non è da pretendere che lo sia, perché è il termine fondamentale di una dialettica. È un muoversi, un frusciare, che penetra la scena con l’aspetto di riverbero o di scotoma; è l’oltre che rende la cosa un qui e adesso, l’occhio di un vortice, che espande i suoi cerchi all’infinito. Avete notato quante scie baluginanti in questi quadri? Sono loro le protagoniste della pittura. E non stanno lì per puntelli della solita illusoria tridimensionalità, non presuppongono una grammatica del realismo… No. Sono suggerimenti di altro: non appartengono all’oggetto, ma fanno dell’oggetto – qualunque cosa significhi iconograficamente – un evento. Buganza, con piglio da virtuoso, scommette proprio sull’immobilità e sull’assenza. E ci dice che la vita è proprio lì.