Il mestiere e i misteri di Guido

A cura di Nicola Gardini

 

Nella pittura di Guido Buganza ritroviamo una passione del colore e della forma che da tempo mancavano, almeno in Italia; e forse rimarranno ancora a lungo una sua felice esclusiva. Guido dipinge come un rinascimentale; e come un figurativo americano; e come un postimpressionista… Sa la pennellata di Cézanne, quell’affollarsi di segmenti cromatici come un piumaggio; il nitore descrittivo di un Hopper; la gravità malinconica di Lucien Freud, l’ironia giocosa dei settecenteschi francesi; e conosce il disegno, il chiaroscuro, la precisione del dettaglio. Insomma, pieno di letture e di interessi, lui può un po’ tutto, tecnicamente e culturalmente; è un Orlando della pittura (penso al personaggio della Woolf), che è a casa in ogni secolo e in ogni paese. Tanta capacità già di per sé equivale a una scoperta; e a un’affermazione della bellezza. La sua pittura celebra la pittura; rappresenta la pittura. E, in questo, Guido discende dritto dritto dal maestro di tutti, Pablo Picasso.

Ma, mettendo subito in luce la sua “bravura”, non vorrei dare l’idea di un semplice, dotatissimo eclettico o, meno ancora, di un compiaciuto alessandrino. Il linguaggio di Guido ha una sua assoluta originalità; un suo stile inconfondibile e commovente, come deve essere ogni stile, che qui cercherò di indicare per sommi capi, in particolare in rapporto ai quadri della mostra La scimmia pittrice. C’è un contrasto che mi attira quando osservo e penso a questi quadri; una dialettica – per ora non riesco a chiamarla altrimenti – tra vicinanza e lontananza: vicinanza del pittore alla tela, alla volontà di rappresentare e creare; e lontananza dell’oggetto della rappresentazione, quasi una forma di ribellione o di assenza: il disordine del corpo nel letto, la torsione del gatto che vuole uscire dallo spazio della cornice, una gamba isolata dal suo corpo… Io vedo una lotta nella pittura di Guido, una tenzone amorosa: non, si badi, tra l’artista e la sua arte (che vanno d’accordissimo, si conoscono, si capiscono), ma tra l’arte e l’oggetto – una cosa che va, ritengo, al di là delle virtù e intenzioni di Guido. Quanto più volenterosa e determinata a riuscire è lei, l’arte, tanto più resistente è lui, l’oggetto; resistente nella sua individualità ultima, nella sua esistenzialità. Per questo la presa di possesso, cioè il dipingere, assume qualcosa di perentorio e perfino di severo o “punitivo”: io ti prendo a qualunque costo; tu, realtà, sfuggi, ma all’arte non si sfugge. Forse questo aspetto agonistico (conflittuale) emerge al meglio nei ritratti: ritratti “a memoria”, di gente incontrata per caso, di sfuggita, una volta e via. Guido – lo sa bene chi gli è vicino – ha una memoria prodigiosa (tanto visiva quanto acustica – uno dei suoi autori è, non a caso, Proust). Ma quei volti “ricordati” sono più che una prova di una simile dote, capace di fare a meno di modello e disegni preparatori (e se i disegni non mancano, anche solo buttati giù direttamente sulla tela, guardano non all’essere, ma all’impressione dell’essere, si ritrovano cioè platonicamente spostati ancora un po’ più in là nella sfera del vero): sono istantanee dell’evanescenza; obbliganti messe in posa, come, mi si passi la metafora, le foto segnaletiche, che circolano indipendentemente dal desiderio del segnalato. Quei volti non sanno di essere volti; di essere materia artistica. Eppure posseggono una dignità da icona: volti umanissimamente dolorosi, scelti dalla pietà. Non so quanto Guido li abbia amati prima di rappresentarli. Abbastanza da decidere di farlo. Ma certo non si tratta dell’amicizia o dell’affezione che Lucien Freud sentiva per i suoi soggetti – figlia, madre, amico, o addirittura regina. Guido non sa niente di queste persone, giovani e vecchi, uomini e donne. Eppure qualcosa di loro è entrato in lui. Per questo ho usato la parola “pietà”, nel senso dell’antica pietas. E adesso mi viene da usarne un’altra: grazia.

La pittura salva quei volti – non solo dall’oblio, ma dalla loro condizione umana, quale che sia. Guido li grazia, appunto; e dà loro la gratia, e la dignità delle imagines familiari, proprio a loro che nascono da un rapporto di totale estraneità e ignoranza reciproca. Fanno eccezione i quadri di Petra: modella studiata da vicino e lungamente, in una fase iniziale, da cui poi è nato tutto il resto. Tuttavia, di questa fase confidenziale resta solo un paio di reperti. Il resto non ci è mostrato. Il pittore ancora una volta, con un istinto alla coerenza che contribuisce in larga misura alla sua identità artistica, sceglie la rimozione del troppo noto e si consegna a un’immediatezza ancora piena di suggestioni inesplorate. E farebbe eccezione pure l’autoritratto. Un autoritratto allo specchio: denuncia scoperta della convenzione; e omaggio a tutti gli autospecchiati della tradizione. Lo specchio, a ben guardare, più che da strumento e garanzia dell’imitazione, funge da diaframma (quanti gradi di rifrazione, sempre!), dunque – di nuovo – da distanza, per fare spazio a un’altra prossimità, una prossimità non umana, la scimmia, vero e proprio nodo mitologico di questo stupendo ciclo figurativo. La scimmia è il quasi umano ripescato in una forma emblematica o, se si preferisce, la regressione dell’umano a un “naturale” intatto, scampato alle razionalizzazioni e alla storia raccontata; e però incarna anche il simbolo più archetipico del riprodurre; ironizza il mestiere stesso del dipingere; eppure, nella sua affettuosa dolcezza e naturalezza, significa, con altro rovesciamento, un’affermazione convinta di quel mestiere e dei suoi misteri. La scimmia, doppio di Guido, diffonde un fiato di enigmatica verità su tutte le rappresentazioni, prototipo di ogni individuo vivente: lei condensa in sé il senso di tanto impegno e amore; e giustamente a lei, con gioioso understatement, la mostra è intitolata.