I Fiori di Guido

A cura di Nicola Gardini

 

Guido le opere del periodo più recente le ha compiute in uno stato di esaltata concentrazione. Dipinge appoggiato a uno sgabello, nel mezzo dello studio, mentre la musica classica va e Maya, la cagnolina, sonnecchia sulla chaise longue o appoggia il muso sul grande specchio, dall’altra parte. Guido, anche fuor di metafora, cerca la posizione di chi vuol guardare il più tranquillamente possibile, il più a lungo possibile. Nel corso di laboriosi mesi sono uscite dal suo pennello vere e proprie epifanie: squarci segreti, zone di buio, sotterranei, anfratti privatissimi, fori e voragini. Qualcosa è cambiato radicalmente in queste ultime opere. Non c’è solo, rispetto ai quadri della precedente mostra, La scimmia pittrice, il passaggio dal ritratto di persone alla rappresentazione di luoghi (vedremo quali). È intervenuta una nostalgia; e, se la forma umana si è eclissata, è aumentata l’umanità della scena, perché qui adesso si ha a che fare non con la presenza, ma con il suo contrario, e dunque lo spettatore, come il pittore, non può che cadere nell’obbligo di evocare all’infinito, di volere senza requie l’assente. Guido dipinge l’abbandono: una poltrona su cui nessuno si metterà più a sedere, un bagno che porta solo le tracce di consuetudini, vestiti sparsi, lenzuola e teli ammucchiati… Qualcuno è passato di lì, forse neanche troppo tempo fa, e il passaggio è l’evento, il non-esserci-più se non come spazio sacro del miracolo concluso, come grotta dell’apparizione. Guido dipinge anche un’altra cosa: l’abitare; ciò che sopravvive all’abitatore e alle abitudini, pur sembrando niente. Lo trovo splendido soprattutto in questo aspetto: nell’aver mostrato l’assoluto dei luoghi, proprio nel momento in cui ce ne mostra di altamente specifici: cessi, camere d’albergo, stanze di barbiere… Quella specificità defunzionalizzata ne fa dei fantasmi eccellenti, che mormorano senza sosta e profetizzano e chiamano come abissi. Il tal lavabo, allora, non è un lavabo, ma un occhio che fissa e nasconde mille visioni; un omphalos, un centro perfetto. La tal tazza è l’ingresso a un averno, a un più-in-là verticale, alla profondità pura. Ce ne voleva di intelligenza e d’amore per arrivare a tanto. E intelligenza e amore si aspetta Guido da noi che guardiamo il suo sguardo che guarda più in là. Resta l’equivoco della rappresentazione “realistica”. Ma sarà un equivoco? No. Il realismo – spero che ci stiamo capendo – è necessario a sentire l’altro. Il concetto espresso astrattamente, in pura formula matematica, a Guido non interessa. Guido legge l’ambiguità e ce la recita pittoricamente. Sì, questo è un cesso, questa è una camera d’albergo, questo è quello che credi che sia… Ma è contemporaneamente altro: è un sistema ordinato, un cosmo, degradato e spogliato che sia. Il discorso che sto cercando di fare mi porta a pensare a Magritte. Non credo che Guido lo metta tra i suoi amori (i più recenti mi risultano essere Freud e Richter, mischiati a Chardin e Degas). Eppure sono convinto che i due pittori siano molto affini. Un’ottima mostra newyorkese di qualche mese fa rivelava quanto per Magritte fosse necessario, per andare-al-di-là, simulare un al-di-qua; buttare in faccia alla gente le forme più familiari perché si smettesse di colpo di riconoscerle. Lo stesso fa Guido, come Magritte, appunto, e come i poeti, che stanno sempre dicendo altro. E come? Beh, non credo che si possa rispondere se non prendendo atto che esiste nella rappresentazione artistica qualcosa che non è né la pennellata né la tela né il colore né il soggetto, ma il principio che anima tutte queste cose, una volontà di conoscenza che possiamo anche chiamare ispirazione, un trascendere lirico per cui il pittore diventa oggetto, opera della sua opera. Ed ecco la grande libertà, la serenità di questi bellissimi nuovi quadri, soprattutto di certi: la scala che si perde nel tenebrore, le tende tirate dietro un vetro attraverso cui traluce un alone giallo, lo spazio a picco (siamo nell’aria aperta, ma ancora in una profondità) tra i palazzi di Parigi, l’impiantito in fuga… E guardando questi quadri, si guarda la pittura: l’amore del raffigurare, la pazienza che costruisce un’intuizione, il commuoversi innalzato a disciplina, il comporsi dei gesti in un unico gesto, una lingua che mette alla prova le sue parole e la sua sintassi e lo fa rispondendo a una lunga tradizione… Un giorno, uscendo dallo studio di Guido, ho composto una poesia. Con questa adesso voglio festeggiare il suo ingegno e i tanti fiori di una stagione.

 

ISTRUZIONI PER DIPINGERE

 

Dipingere è moltiplicare tutto.

Occorre ricordare che nell’arte

Una cosa non è una cosa sola,

 

Ma tante. Un bordo, per esempio, è almeno

Tre righe di colori differenti.

E un colore non è soltanto il nome

 

Che gli diamo. Nel rosso del bargiglio

Hai pure il viola e l’arancione e il giglio

Per esser bianco prende il blu e il marrone.

 

La neve stessa dello stesso prato

Contiene i gradi dell’arcobaleno,

Così la casta nuvoletta. E intorno

 

L’azzurro è grigio e giallo. E suddividi

Se vuoi moltiplicare. Solo in parti

L’intero appare e quelle in particelle

 

E l’unità deriva dal contrasto

E dal frammento. L’uniforme è cento,

L’identico il variato. Niente dorme

 

In un dipinto: questo chiama quello

E quello gli risponde, come fanno

Nei versi le parole, da lontano

 

O nel medesimo contorno. E togli

Pure parecchio dipingendo. Il vuoto

Vale pieno e, poiché tutto si tocca

 

A vicenda, gli aspetti sono frutto

Del contatto, non dell’assolutezza.

Il sé comprende sempre un po’ dell’altro

 

E quel che chiude e spezza invece estende.